2006, editrice compositori, andrea trebbi 1980-2005 architetture
L'architettura di Andrea Trebbi si muove tra due tendenze tipiche della scuola fiorentina dalla quale egli proviene e nella quale fu uno dei miei più brillanti allievi.
Una è quella del "plasticismo brutalista" di Leonardo Savioli alla quale, evidentemente, Trebbi fu esposto in quegli anni di apprendimento come le prime opere dimostrano e che successivamente, talvolta, riaffiora. L'altra è quella del "tecnologismo funzionale" meglio rappresentato dalle ricerche di Mario Zaffagnini che non dallo "strutturalismo libero" di Spadolini.
I lavori della generazione di architetti cinquantenni alla quale Trebbi appartiene sono in genere riconducibili a tali procedure progettuali, interessanti per il grande impegno che i docenti di quelle discipline profusero nella ricerca e nella didattica anche se discontinuo negli approcci metodologici ai modi del progetto.
C'è poi un'altra considerazione di fondo; le opere illustrate in questo libro coprono un arco di tempo che va dai primi anni Ottanta a oggi. Dunque un periodo sufficientemente lungo perché un architetto avverta il bisogno di fare un resoconto del proprio lavoro. lo non sono solito scrivere "presentazioni" di volumi di architettura, né per amici né per colleghi dell'"Accademia". Per questi ultimi sarebbe peraltro più facile, in ragione della contiguità che l'operare assieme consente (soprattutto nel campo della ricerca che è anche il mio) e della reciproca conoscenza dei problemi, degli interessi, delle posizioni politiche e culturali, con le quali ci si deve confrontare ogni giorno. Il mondo "di fuori" mi appare dunque sempre un po' estraneo, meno "protetto" e molto duro a causa della realtà quotidiana che investe il mestiere dell'architetto. Soprattutto ora che le variabili presenti nel progetto sono enormemente aumentate rispetto a quelle di un tempo; aumentate al punto che i progettisti disertano i cantieri e affidano ad altre figure professionali la direzione del "loro" lavoro. La trentina di progetti che Trebbi ha selezionato tra quelli disegnati in questi 25 anni (ciascuno accompagnato da interessanti schede descrittive che nulla hanno a che vedere con quelle "tecniche" presenti di solito in questo tipo di pubblicazioni) contribuiscono a rendere il tutto una specie di autobiografia architettonica. Ogni progetto è infatti l'espediente per raccontare una storia: l'avventura che rende il progettista protagonista nell'impresa del costruire.
Dunque un'architettura la cui facies ultima è in gran parte dovuta ad una tecnica dell'operare che non viene raccontata attraverso se stessa, ma attraverso gli accadimenti che hanno determinato scelte materiche, ambientali, tipologiche. Leggendo queste schede si coglie perfino l'intenzione di un ruolo didattico dell'architettura di Trebbi che non esita a raccontarsi e a raccontare come sono andate veramente le cose, come egli abbia saputo guidare gli inevitabili compromessi, piegarli ad esclusivo favore del migliore risultato finale, utilizzare l'esperienza di un progetto per farla confluire in quello successivo. Alcuni di questi lavori mi rammarico di non averli potuti iscrivere nella Guida di Architettura a Bologna che ho redatto coi miei collaboratori per Allemandi. Le poche opere moderne che si registrano da qualche tempo sono tutte anagraficamente molto giovani, infatti Trebbi non aveva quarantanni quando vinse il concorso per la Siedlung dell'"Accademia dell'Agricoltura". Io ero in giuria (con Bibi Mazzuccato e il compianto Giorgio Trebbi, con cui il nostro non va confuso) e non vi furono dubbi che quello fosse il solo progetto nel quale i desiderata del bando trovassero piena esplicitazione in forme architettoniche perfettamente calate nell'ambiente collinare. Quel progetto mai realizzato, costituisce una prova esemplare, elaborata in un momento di forte crisi locale della modernità. Trebbi qui superò l'impasse del momento riesplorando con sicurezza la tradizione contemporanea. L'insediamento si inserisce in un contesto disarticolato e generico mediando e innestando pubblico e privato in un insieme organico. Nell' "Edificio lungo il Reno" che segue a ruota (1990-1992) e nelle "Residenze in via Spadini" (1990-1993) si coglie già molto bene quel modo inconsueto e libero con cui l'architetto affronta il tema che gli è risultato prevalente nell'esercizio del mestiere, quello della residenza. In ciascuna di queste costruzioni si legge, a volte, una referenza a maestri ammirati che sfugge all'occhio distratto ma che imparenta comunque gli edifici alle immagini di un "già visto" con cui i riferimenti formali sono logici e possibili. Sono certo che tali "contatti indiscreti" avvengono per caso, circuitazioni misteriose che l'occhio coglie e ruba ad altre opere e che la mente trasforma e ricrea. Nelle parole dell'autore che accompagnano le singolari riflessioni sul proprio lavoro, tale solitario colloquio si coglie come una delle costanti dell'opera prima, durante e dopo la realizzazione del progetto. A distanza di tempo si ritorna sui ragionamenti già fatti. Ancora oggi, di fronte alle Residenze di via Spadini non è possibile aggiungere altri dati e osservazioni a quelle fatte al tempo della sua inaugurazione. In un luogo che non ama (o teme?) la modernità, dove ogni ragionamento architettonico è costretto a confrontarsi con un intorno che pretende di storicizzarsi nel breve volgere di una stagione, queste architetture di Trebbi procurano il piacere acerbo delle "dissonanze zeviane". Esse, a ben guardare, non possono essere che lì (generate da quel sito come risposta a valenze occultate), ma potrebbero trovarsi anche altrove, per l'energia spaziale che irradiano e che, da sola, da senso all'inconsistenza delle cose circostanti.
È il caso di via degli Orti. Nella prospettiva della strada (sia proveniendo da San Lazzaro che da via Murri) il blocco bianco, segnato a feritoie e aperture "illogiche", fatica ad identificarsi come "casa". E tra le case e non ne contraddice la logica stanziale; semplicemente adotta altri statuti per collegare interni ed esterni inconsueti, separati dalla parete non più ordinata con "porte e finestre". La promenade architecturale, la casa col viaggio dentro, o la "scatola in espansione" di figiniana memoria, rimandano a celebri prototipi del razionalismo italiano ed europeo. Qui, anche quando gli elementi dell'involucro si piegano in modo innaturale, è facile avvertire che il disegno di base e "il progetto abitativo" razionale danno giustificazione a una segnicità solo apparentemente eccessiva.
L'esibizione delle opere selezionate (tra cui non pochi concorsi e un ampio repertorio di progetti di autoparcheggi), a volte provocatoriamente accostate nelle pagine del libro, segue un percorso cronologico. Esse stanno comunque ad indicare la fecondità progettuale di questo architetto. La lettura della sua conversazione con Vittorio Camerini potrà in parte verificare le mie annotazioni. In quella, sorretto da assoluta determinazione, Trebbi elabora una sua strategia di accorata "difesa dell'architettura": parla per sé ma sappiamo bene che il suo modo aspro vuole opporsi a tutti gli ostacoli culturali, inclusi quelli istituzionali. lo non fui dalla sua ma dall'altra parte quando un quartiere bolognese insorse contro la costruzione dell'autoparcheggio sotto piazza Carducci; lasciato solo dalla pubblica Amministrazione, Trebbi seppe comunque difendere fino in fondo quella sua opera poi rispondendo colpo su colpo con altre architetture. È attraverso le battaglie della vita quotidiana che si forma il carattere degli uomini, un carattere che l'architettura rispecchia lasciandosi giudicare per quello che è, esigendo di essere difesa. Apologetikon era un genere letterario molto diffuso in tempi antichi. La condizione di vessazione alla quale la disciplina architettonica oggi è costretta lo rende singolarmente attuale.