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n. 25, giugno 2007
Una della ragioni per apprezzare l'edificio realizzato da Andrea Trebbi in via Bellaria, nella zona est di Bologna, è il modo con cui ha risolto brillantemente i vincoli che gli derivavano dalle rigide norme sui distacchi che, in un lotto di piccole dimensioni quale questo, imponevano un corpo di fabbrica troppo esile e per di più sviluppato su quattro piani d'altezza.
In queste condizioni il risultato sarebbe potuto essere uno dei tanti anonimi e sgraziati villini che popolano la periferia emiliana. Mentre, invece, Trebbi, articolandone i volumi e drammatizzandone gli effetti plastici è riuscito a trasformarlo in una palazzina con una spiccata connotazione urbana che emerge nel contesto residenziale, anni Sessanta e Settanta, nel quale è inserita.
Da un punto di vista tipologico, l'edificio è estremamente semplice: è formato da quattro appartamenti, uno per piano della superficie utile di circa novanta metri quadrati. Si differenziano tra loro per piccoli scavi o aggetti volumetrici che concorrono, all'esterno, a movimentarne la sagoma. Nell' interrato sono localizzati i garage e locali di pertinenza dell'appartamento posto al piano superiore i quali si affacciano su un giardino posto a un livello più basso rispetto alla quota media del terreno.
A caratterizzare l'edificio è, in primo luogo, il volume di cristallo aggettante che si sviluppa in altezza in corrispondenza del pianerottolo della scala. Serve a individuare l'ingresso e sostituisce la pensilina come fattore di protezione dagli agenti atmosferici. Ha anche la funzione di far entrare di giorno la luce del sole nelle parti comuni e la notte di disegnare la facciata con un prisma illuminato artificialmente dall'interno.
I materiali sono chiari, con una scelta in controtendenza rispetto alle abitudini bolognesi che prediligono i colori caldi, facendo spesso ricorso all'uso del mattone. Sono l'intonaco liscio pitturato avorio chiaro, l'intonaco scanalato e trattato come se fosse un rivestimento in lastre di pietra e per questo motivo dipinto in avorio più scuro, le lamelle di alluminio preverniciato. Questi tre materiali, insieme con il bovindo in vetro della scala, individuano i volumi nei quali l'edificio è articolato che, così caratterizzati, assumono una più decisa consistenza plastica. A rendere il gioco tridimensionalmente più coinvolgente contribuisce il disegno della scala che è caratterizzato da un pianerottolo semicircolare. In questo modo la facciata nella quale è localizzato l'ingresso e quella su cui prospettano i soggiorni sono raccordate da una curva che ricorda - ma senza alcuna nostalgia storicista o tradizionalista - un certo modo di disegnare le costruzioni residenziali tipico degli anni Trenta.
Vi è nella scelta di toni così chiari il desiderio di far emergere l'edificio rispetto al contesto. «In fondo - afferma Trebbi - uno degli edifici migliori che io abbia visto è il museo di Richard Meier a Barcellona che, ubicato in pieno centro storico, cerca con l'intorno un rapporto dialettico anche conflittuale, mai mimetico. Le città dove tutti gli edifici sono uguali sono, a pensarci bene, orribili. Forse - conclude scherzando - se avessi dovuto realizzare la stessa palazzina a Monopoli, dove tutte le abitazioni di regola sono bianche, la avrei disegnata in mattoni».
Classe 1954, Trebbi si è laureato a Firenze con Graziano Trippa e ha frequentato i corsi di Leonardo Ricci, Gianfranco Caniggia e Mario Zaffagnini, cioè tre protagonisti le cui ricerche architettoniche sono tra loro distanti anni luce. Nonostante sia stato influenzato soprattutto da quest'ultimo, si è formato - come la gran parte dei progettisti di talento che operano nel panorama nazionale - soprattutto da autodidatta. E da autodidatta ha incontrato Bruno Zevi e Dino Gavina: il primo gli ha comunicato il senso dello spazio, del volume e del movimento, il secondo il piacere del design e la ricerca del dettaglio. Da qui un approccio libero e politeista, tanto che quando gli chiedono quali sono i suoi architetti di riferimento cita personaggio così diversi quali Frank Lloyd Wright, Rafael Moneo e Richard Meier. E difatti, osservato da un punto di vista strettamente stilistico, l'edificio di via Bellaria sfugge alle etichette. Anche se, a guardarlo con attenzione, compaiano riferimenti – per esempio nell'attacco tra materiali diversi – che ci fanno capire che dietro le scelte di questo architetto bolognese si cela una solida cultura disciplinare. In linea con la tradizione bolognese che si ha fornito ottimi professionisti – penso per esempio a Enzo Zacchiroli – con i quali la critica architettonica, infestata da pregiudizi accademici, deve ancora a tutt'oggi confrontarsi.