2012, eliobiemme, 50 anni nei distinti
Leggendo per la prima volta queste pagine di Andrea, non mi hanno sorpreso l'eleganza e la vivacità dello stile. Le style, c'est l'homme, si sa. Conoscevamo l'uomo, i conti tornavano. Mi ha invece stupito la quasi assenza di quella sottile, pungente ironia che ben caratterizza il personaggio. Andrea era diventato "buono"? No, semplicemente era innamorato e in un amore travolgente non c'è più posto per l'ironia. Sì, innamorato della squadra di calcio del Bologna. E questo libretto, che per le qualità formali della scrittura, l'indubbio valore documentale, l'afflato etico che anima ogni riga meriterebbe una formula editoriale più adeguata, è la storia di una passione, sentimento oggi in disuso. Storia personale di una militanza cinquantennale nei distinti dello Stadio, storia di un sogno che si era realizzato in un tempo ormai mitico, quando la grande squadra che "tremare il mondo faceva" giocava "come si gioca solo in paradiso".
Di quel passato eroico Andrea ci restituisce, filtrate nella memoria, immagini di singolare efficacia descrittiva: la Torre di Maratona "fasciata di drappi rosso-blu trasudanti di passione"; i tifosi infreddoliti col plaid (ma allora si diceva "plade") sulle gambe; le partite "intraviste in piedi tra gli ombrelli schiacciati sulla testa"; "le stentate circolazioni tra il pubblico" dei venditori ambulanti e "l'inverosimile precisione dei loro lanci di cornetti Algida ...". Ricordi affettuosi e bonari, velati di malinconia.
Malinconia e rimpianto per quell'età dell'oro del calcio bolognese, quando c'era passione, anzi "ambiziosa passione"; quando i calciatori erano veramente grandi perché la loro dedizione era "maggiore di quella necessaria al conseguimento del solo obiettivo della vittoria"; quando la folla dei tifosi "urlava, gioiva, fischiava" laddove oggi "imperversa un silenzio rassegnato"; quando l'etica dei dirigenti vincenti del Club era ben altra da quella espressa nella dichiarazione di un recente presidente "sono ricco ma non sono scemo": dichiarazione che Andrea considera tristemente paradigmatica dell'atteggiamento di "generazioni di facoltosi locali che non hanno mai fatto neppure il gesto di avvicinarsi alla Società".
E a questo punto l'analisi della decadenza del Club coinvolge impietosamente l'intera città, del cui degrado a tutti i livelli la crisi della grande squadra sarebbe solo un sintomo, altamente emblematico. E le due decadenze, di Bologna e del Club, sono parallele ma non di pari gravità, se Andrea ritiene –in uno sprazzo di ottimismo (o di realismo?)– che "più credibilmente possa essere la squadra del calcio ad incoraggiare la ripresa della città e non il contrario".
Francesco Piazzi